Aggressioni urbane omofobe, parla Alberto Voci
Alberto Voci, professore al Master Sicurezza urbana di “Pregiudizio, conflitti e pace urbana”, commenta in questa intervista il fenomeno delle aggressioni omofobe. Perché si verificano?
Perché se un uomo e una donna si scambiano un bacio non rischiano nulla, mentre se lo stesso gesto viene compiuto da qualcuno etichettato come “diverso”, rischia di essere aggredito?
Cosa spinge gli individui a commettere simili atti violenti? Il parere del docente è una lezione assai illuminante.
Un episodio increscioso, accaduto il 20 settembre scorso a Padova, ha riacceso l’attenzione sulle aggressioni omofobe. Due ragazzi sarebbero stati malmenati in pieno centro città, resi colpevoli, secondo quanto dichiarato dagli stessi ragazzi, di essersi scambiati un bacio. La cittadinanza ha reagito immediatamente sostenendo e supportando le vittime con una manifestazione che ha avuto un importante seguito, segno che c’è una buona parte di persone che, nel 2020, non vuole più che accadano fatti del genere.
Professor Voci perché ci ritroviamo, ancora nel 2020, a parlare di questi episodi?
Si tratta indubbiamente di un fatto deprecabile e ovviamente va la piena solidarietà a chi ne è stato vittima, però è come dice lei, non possiamo fare a meno di notare che è l’ultimo in ordine temporale di una serie di altri fatti, di altre aggressioni, in cui le vittime sono sempre persone che vengono percepite come “diverse”. E’ proprio questa percezione di diversità che sta alla base di questi avvenimenti. Da un punto di vista psicologico sembrerebbe che proprio questa contrapposizione tra “noi” e “gli altri” cioè qualcuno che viene percepito come “diverso”, sia la causa scatenante. Naturalmente va sottolineato che questa diversità è assolutamente presunta, perché poi siamo tutti esseri umani per cui alla fine l’umanità dovrebbe essere qualcosa in comune tra gli aggressori e le vittime.
Professor Voci perché quindi la società sembra faccia sempre più fatica ad accettare queste persone che vengono definite erroneamente “diverse”?
Perché ci sono delle ragioni psicologiche di base, che fanno riferimento al tema più generale dei pregiudizi e della stigmatizzazione. Questo fatto specifico è stato etichettato con il termine omofobia, che viene utilizzato comunemente. E’ un termine peraltro che in parte è fuorviante perché racchiude al suo interno la parola fobia, quindi fa pensare che ci sia una paura di qualcosa che è spaventoso, qualcosa che preoccupa. In questo modo va a finire che l’aggressore diventa quasi una vittima della propria paura, e ovviamente non è questo il caso. Inoltre il termine fobia è spesso associato a disturbi clinici tipo l’agorafobia o altri, ma qui non si tratta di un disturbo clinico, si tratta invece di un processo psicologico purtroppo diffuso nelle persone cosiddette “normali”, e che fa riferimento appunto a temi più ampi come il pregiudizio e la stigmatizzazione.
Che cos’è lo stigma? e qual è la differenza dal pregiudizio?
Lo stigma di per sé è un marchio, quindi è un modo per etichettare, marchiare una persona che adotta dei comportamenti che non vengono considerati “normali”. Il pregiudizio invece è strettamente legato allo stigma ed è di per sé una valutazione negativa, una valutazione che una persona riceve in quanto appartenente ad un gruppo che è stigmatizzato. Si tratta di due processi assolutamente legati tra di loro e che condividono anche una causa comune e questa causa è la categorizzazione, cioè il fatto che gli esseri umani, così come anche gli animali, hanno la tendenza a categorizzare l’ambiente fisico e sociale.
Questo di per sé è anche utile perché serve a semplificare l’ambiente, a renderlo più gestibile, a non aver a che fare con singoli stimoli conosciuti ogni volta come i nuovi ma a racchiudere in classi più ampie che a quel punto sono più gestibili e possono orientare il comportamento. Il problema è quando questo viene applicato agli esseri umani, perché allora lì sorgono fenomeni come questo di cui abbiamo parlato, in cui gli altri vengono etichettati in un certo modo, con un “sono tutti uguali tra di loro”, “sono fatti così”, “sono negativi”.
Questa negatività spesso si associa a un senso di minaccia e cioè quando categorizziamo creiamo dei gruppi di appartenenza “noi”, e dei gruppi estranei “loro”. Questa contrapposizione sulla base di processi cognitivi viene accentuata e quindi c’è una tendenza ad accentuare le differenze, e in più viene anche caricata di valore perché spesso si associa ad una minaccia: “l’altro è diverso da me e in quanto tale risulta minaccioso”. Minaccia che può declinarsi sia a livello di pericoli presunti o percepiti dalla propria sopravvivenza ma anche per pericoli percepiti a livello della cultura o dei valori di riferimento di una persona. Quindi tutti questi processi portano a una separazione netta tra “noi” e “gli altri” che poi può anche sfociare in avvenimenti come quello di Padova.
Quando accadono questi fatti c’è sempre una repressione, nel senso che le forze dell’ordine, senza entrare nei dettagli dell’ultimo caso, prendono chi ha aggredito e queste persone subiranno un processo. Però sembra sempre che la cosa si chiuda lì. Ma lì non si dovrebbe chiudere perché ci deve essere molto altro dopo. Ci possono essere delle politiche inclusive? Uno dei suoi corsi per altro è proprio sulle strategie per la riduzione del pregiudizio: quali possono essere queste strategie e che cosa ci deve essere oltre la repressione?
Sono strategie che dovrebbero essere messe in atto da un punto di vista culturale, sociale e politico, tenendo sempre a mente qual è l’origine del problema, cioè questa percezione di distanza eccessiva tra sé e gli altri, di minaccia percepita. Il punto fondamentale è che la nostra società è caratterizzata dalla diversità, che ha anche un senso positivo, cioè non c’è nulla di male nel dire che ci sono persone diverse da noi, il problema è quando questa diversità viene caricata anche di negatività: “sei diverso quindi sei una minaccia”. Questo è un problema più psicologico, che andrebbe affrontato aiutando le persone, spingendole a comprendere meglio l’altro e a comprendere che le diversità esistono, ma non per questo è minacciosa. Il non sentirsi minacciati a quel punto potrebbe portare a una riduzione dei giudizi, delle discriminazioni e delle stigmatizzazioni.Da un punto di vista pratico la psicologia sociale ha dimostrato che ci sono almeno tre strategie utili. Una è quella del contatto intergruppi, cioè conoscere l’altro, creare delle situazioni favorevoli già a scuola, ad esempio nelle comunità in cui si è possibile interagire con persone percepite come diverse e arrivare poi alla conclusione che in realtà tutta questa diversità non c’è. Conoscere l’altro in modo positivo e quindi una delle strategie migliori per ridurre il pregiudizio.
Anche i film o mass media possono essere interessanti da questo punto di vista e possono essere molto utili. Una cosa importante da sottolineare è che già più di 60 anni fa Gordon Allport che ha proposto con la strategia del contatto intergruppi per ridurre il pregiudizio, in cui faceva notare che il contatto funziona quando c’è un sostegno istituzionale e cioè quando le istituzioni sono coerenti con l’idea del contatto e della riduzione del pregiudizio. Questa cosa purtroppo non la troviamo sempre o almeno non in tutti i momenti storici. Poi c’è l’empatia, cioè l’assumere la prospettiva dell’altro, non solo conoscere l’altro ma mettersi nei suoi panni, capire i suoi vissuti, capire le sue emozioni e sentire le sue emozioni. Si è visto come proprio l’empatia sia in grado di ridurre la distanza percepita tra il “sè” e l’altro. Se una persona soffre e mi metto nei suoi panni o comunque cerco di capirla potrei notare alla fine che poi soffre per le stesse ragioni di qui per cui potrei soffrire io.
Poi in ultima analisi forse la strategia che sarebbe più efficace ma che spesso richiede le altre due è una creazione di un’identità comune. Potrebbe essere l’identità umana che ovviamente ci accomuna tutti. Anche il fatto di vivere in una stessa società che non richiede una contrapposizione ma richiede al contrario una cooperazione, e il proprio percepirsi come membri di uno stesso gruppo, di una stessa categoria va a minare alla base questa distinzione tra il sé e gli altri. Da questo punto di vista messaggi inclusivi legati al “noi”, al rispetto reciproco, alla possibilità di costruire una fiducia reciproca, al fatto di provare empatia, compassione nei confronti di persone che soffrono sono sicuramente utili.
Riassumendo: anche in questo caso la cultura e la conoscenza possono fare molto per evitare episodi così sgradevoli?
Possono fare moltissimo. C’è anche da dire che la nostra cultura contemporanea purtroppo da questo punto di vista non fa molto perché propone dei valori assolutamente egocentrici. La nostra cultura importata dai paesi anglosassoni pone più l’accento sull’individuo, sul successo personale. Il punto è che la situazione è un po’ degenerata nell’ultimo periodo dove dall’individualismo si è passati ad una sorta di egocentrismo, in cui ognuno si sente al centro del mondo, in cui ognuno pensa di dover emergere e avere gli altri come spettatori delle proprie azioni. Pensiamo al fenomeno della ricerca di follower o anche al fenomeno dell’hate-speech, in cui gli altri diventano invece oggetto di insulto.
Siamo quindi tra due estremi, gli altri sono percepiti o come adoranti o come ostili e quindi nemici, manca una sana via di mezzo in cui gli altri sono come noi. Si parla tanto di libertà individuale che è intesa come “faccio quello che voglio”, ma ovviamente questa è un’idea che non tiene conto degli altri perché la libertà degli altri doveva essere importante quanto la mia. Ma anche qui torna appunto il tema dell’identità comune cioè il fatto di capire che siamo tutti sulla stessa barca, siamo in una interdipendenza positiva in cui il successo di uno può essere il successo dell’altro, il benessere di uno è il benessere dell’altro, e questo dovrebbe alla lunga portare un cambiamento reale nella società. Al momento la nostra cultura non sta andando in questa direzione e temo che il continuo susseguirsi di eventi di questo tipo sia legato a questo processo culturale, che non va nella direzione dell’inclusione.
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