La povertà non è una sola. Esclusione sociale e isolamento acuiscono la sofferenza urbana
Il Direttore del Master Prof. A. Zamperini intervistato da Il Bo Live risponde su povertà urbana e disagio urbano. La necessità di progetti di recovery per eliminare i fattori di marginalità e di esclusione attraverso interventi mirati di coesione sociale e di convivenza civile.
Nell’ultimo anno c’è stato un aumento di povertà in tutta Italia, anche a causa della crisi finanziaria e sociale prodotta dal Covid. La sofferenza e la povertà all’interno dei contesti urbani non riguardano solo il mancato benessere dal punto di vista economico, ma sono anche dovuti alla mancanza di inclusione e alla presenza di stigmi rivolti ad alcuni gruppi di persone. La povertà in Italia, quindi, va considerata come una forma di esclusione sociale molto articolata e complessa, dove non è solo il versante economico ad avere un peso.
Ma quali sono i meccanismi che producono povertà e disagio sociale? E come si può agire a livello di comunità per contrastarli? Lo abbiamo chiesto al professor Adriano Zamperini, direttore del master in Dirigente della sicurezza urbana e contrasto alla violenza all’università di Padova, all’interno del quale è nato un progetto di ricerca triennale, in collaborazione con la Fondazione Nervo Pasini, titolare delle Cucine economiche popolari (CEP) di Padova.
Il professor Zamperini parte da una premessa: “siamo abituati a pensare che la povertà sia sostanzialmente un problema di mancato accesso a un certo tipo di benessere economico e ad associare, quindi, i problemi economici al disagio prodotto dalla povertà. Bisogna tener presente, invece, che lo scenario legato al tema della povertà è molto mutato in questi ultimi anni come conseguenza del cambiamento delle stesse città in seguito a fenomeni come lamigrazione. Dai report prodotti dagli organismi internazionali negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, infatti, la povertà sembrava qualcosa di facilmente superabile (almeno nei paesi occidentali) perché legata appunto al guadagno di un certo tipo di benessere economico.
In realtà, sappiamo che negli ultimi quarant’anni, a partire dalla crisi petrolifera, la situazione è cambiata. La povertà, quindi, non è un fenomeno residuale che colpisce quegli individui e famiglie che non riescono a raggiungere una certa stabilità economica per motivi personali o culturali, ma viene considerata, piuttosto, come un fenomeno alimentato da meccanismi di esclusione e processi di marginalizzazione che colpiscono diversi segmenti della popolazione a seconda delle città e dei contesti di riferimento: pensiamo alle minoranze etniche, agli immigrati, ma anche agli anziani, ai giovani scarsamente istruiti, alle madri sole, ai disoccupati.
La povertà urbana, che è ciò che produce il disagio urbano, non è dovuta perciò solo alla concentrazione di poveri nelle città, ma al fatto che le stesse città mettono in atto delle dinamiche sociali che producono un particolare tipo di povertà. Questa condizione è inoltre causa di un grande logoramento delle interazioni sociali che produce isolamento e distacco dalle risorse della comunità ospitante.
Un esempio di questo fenomeno riguarda appunto gli anziani, che solitamente non vengono considerati tra le persone colpite da queste dinamiche. In realtà, proprio a causa dei grandi cambiamenti intercorsi a livello di città e società, queste persone oggi vivono forme molto gravi di isolamento. Si trovano infatti davanti a un mondo che si è mosso rapidamente, con grandi accelerazioni. Lo sviluppo della tecnologia al tempo del Covid ha contribuito ad aumentare l’esclusione sociale degli anziani, che sono sempre più chiamati a interagire con dei sistemi che non prevedono la presenza fisica, ma la distanza”.
Uno dei motivi per cui si producono meccanismi di esclusione e isolamento di alcune persone riguarda anche la presenza dello stigma sociale spesso legato alle persone che vivono in povertà.
“Lo stigma è un segno di discredito che rimane incollato a qualcuno e che lo indica come un soggetto da tenere a distanza”, spiega il professor Zamperini. “Oggi, esiste un grande stigma attorno alla povertà, che storicamente è considerata propria di persone incapaci o nullafacenti o che volevano vivere di espedienti. Per eliminare questo stigma negativo, quindi, bisogna capire che la povertà è un fenomeno che accomuna persone che possono avere delle traiettorie esistenziali molto diverse.
Sappiamo infatti che oggi esistono molte forme di povertà ed esclusione sociale prodotte da quelli che in letteratura si chiamano eventi svolta. Si tratta di avvenimenti che irrompono in modo brutale nella biografia di ognuno di noi provocando gravi ripercussioni, come un licenziamento, uno sfratto, la morte del coniuge o l’abbandono scolastico.
Considerare queste situazioni dovrebbe aiutarci a capire che il povero non è colui che è inabile o che vuol vivere di espedienti perché non ha voglia di lavorare o ne è incapace. Se osserviamo da vicino tutti questi percorsi biografici, ci rendiamo conto che abbiamo a che fare con molte persone che hanno subito degli eventi svolta che hanno avuto un impatto biografico molto importante e che li hanno instradati verso un percorso di marginalizzazione ed esclusione sociale.
Per questo è molto importante avere delle risorse a livello locale che possano diminuire il peso di questi fenomeni, limitandone la portata negativa”.
Lo scenario attuale del Covid, che ha causato la perdita di molti posti di lavoro, è stato causa di molti di questi eventi svolta.
“Il Covid è un evento estremo, e in quanto tale ha messo a nudo le criticità di un sistema”, riflette il professor Zamperini. “Si è trattato di un vero e proprio disastro sociale sanitario che ha avuto un impatto devastante su ogni tipo di comunità. Ciò che può fare la differenza è proprio la capacità di attenuare l’impatto dell’evento stesso.
Sappiamo benissimo, ad esempio, che il nostro paese ha patito, con effetti diversi a seconda delle diverse realtà territoriali, una sanità ospedale-centrica a discapito di una territoriale.
Tutti quei corpi intermedi che operano in ambito sociale e sanitario che si frapponevano fra il singolo cittadino e le istituzioni più articolate, come gli ospedali, in questi ultimi anni hanno diminuito la loro presenza territoriale, in modo più o meno marcato a seconda delle politiche sociosanitarie delle regioni.
Una delle criticità che l’evento Covid ha messo in evidenza è stata quindi la mancanza di punti di riferimento a cui i singoli cittadini potessero rivolgersi all’interno delle proprie comunità per ottenere risposte a problemi molto semplici. In alcune realtà abbiamo visto che addirittura le radiosono diventate un nodo di assistenza agli anziani che non potevano uscire di casa neanche per procurarsi un termometro e non sapevano come muoversi e a chi rivolgersi. Il Covid, quindi, ha segnalato a tutti noi quali sono i punti critici da tenere in considerazione e che possono essere affrontati investendo in progetti di recovery”.
È proprio di fronte a questi problemi che è nato il progetto di ricerca triennale organizzato dall’università di Padova e dalla Fondazione Nervo Pasini, il cui obiettivo è quello di stabilire delle linee guida per ottimizzare i servizi offerti dalle Cucine economiche popolari in modo tale da migliorare la percezione esterna di queste strutture e garantire la sicurezza di chi ne usufruisce e di chi ci lavora.
“Il nostro progetto parte da una considerazione: nel nostro paese esiste la legge 48/17 che all’articolo 4 parla della sicurezza urbana definendola come un “bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città”, spiega il professor Zamperini. “Al centro di questa normativa viene anche indicato che accanto al compito canonico di prevenire la criminalità c’è pure quello di eliminare i fattori di marginalità e di esclusione attraverso progetti di coesione sociale e di convivenza civile.
Il master in Dirigente della sicurezza urbana e contrasto alla violenza dell’università di Padova è nato perciò dalla consapevolezza di doverci sempre più preoccupare e prenderci cura dei nostri cittadini nei diversi contesti di vita, e soprattutto renderci conto che esistono alcune realtà territoriali (e le Cucine economiche popolari ne sono la dimostrazione) che hanno bisogno di essere tutelate e valorizzate con una logica che sia sempre più inclusiva e non stigmatizzante. È ancora abbastanza presente, infatti, anche lo stigma verso le persone che usufruiscono di queste cucine, che sono invece un servizio nevralgico in grado di fornire assistenza non solo alimentare, ma anche sanitaria, e anche di mettere a disposizione delle docce. Stiamo quindi lavorando per eliminare questo stigma e anche per capire come garantire la sicurezza sia all’interno che all’esterno di queste strutture, per permettere che le Cucine economiche popolari diventino un porto sicuro in cui recarsi quando le persone si trovano nel mare aperto della vita e non sanno a chi rivolgersi.
Il nostro obiettivo è quindi quello di garantire il massimo della sicurezza attraverso protocolli operativi che tutelino sia chi utilizza questo spazio, sia gli operatori e i volontari, e che garantiscano la sicurezza anche per la collettività. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che le persone che vengono marginalizzate possono trasformare il loro disagio in risentimento e rancore. Anche per questo motivo è fondamentale promuovere forme di inclusione sociale. Vogliamo quindi potenziare questo nodo territoriale così importante cercando di aprirci alla cittadinanza.
Il nostro progetto, inoltre, non ha un intento solamente operativo, ma anche conoscitivo. Uno dei nostri obiettivi è capire quali persone entrano per usufruire di questo servizio e quali sono i loro percorsi di vita. Stiamo rilevando, ad esempio, una fetta importante di cittadini padovani che usano le Cucine economiche popolari perché vivono dei momenti di disagio anche in seguito a divorzi.
Ovviamente la vicenda Covid ha limitato alcuni dei passi che avevamo programmato all’inizio, ma la nostra volontà resta quella di rendere questo servizio un fiore all’occhiello per Padova, essendo un primo servizio di bassa soglia in grado di intercettare direttamente i problemi degli esseri umani.
Conoscere adeguatamente il servizio e chi lo usa permette infatti di suggerire, anche attraverso un collegamento con tutta la rete del territorio – quindi con i diversi servizi esistenti nella città di Padova – strategie di intervento e indicazioni operative per comprendere e affrontare nel modo migliore possibile la situazione che stiamo attraversando.
L’esclusione sociale, infatti, non è semplicemente un fenomeno che va contrastato, ma anche uno specchio per guardarci dentro e capire come stiamo vivendo e quali sono i problemi esistenti legati alla convivenza”.
Fonte: https://ilbolive.unipd.it/it/news/poverta-non-sola-esclusione-sociale-isolamento?fbclid=IwAR3HPqN4CiAEJslBctkCP1xX1aq4OALQABgh8kbTja83X8wPetQ0uHWWMzA